I racconti di caccia degli appassionati
Secca, come un ramo che si spezza sotto il vento, l’eco della fucilata attraversò miliardi di foglie e andò a perdersi ai margini del bosco.
Il vecchio passò il palmo della mano sulla fronte per asciugare il gelido sudore che la bagnava e, subito dopo, passò il dorso della stessa mano, piena del sangue regalatogli dai rovi, per asciugare una calda e grossa lacrima che gli solcava una guancia, scendendo lungo una ruga della sua vec-chiaia che, come un lavinaio univa un occhio all’angolo della bocca.
Lo sfarfallìo della beccaccia andò a confondersi con la melodia di mille foglie morte accarezzate dal vento di dicembre.
Subito dopo, quasi come a rispettare il dolore del vecchio, il bosco tacque e il suono del silenzio giunse a quelle orecchie rugose, come a ricordargli che tra poco anche per lui sarebbe giunto il si-lenzio, quello che dura per sempre.
Ma se ne fotteva, il vecchio, della morte.
Era giusto, pensava, morire, un giorno, dopo una vita intensa e felice come quella che il Padreter-no gli aveva concesso; morire come morte erano le migliaia di “regine” che aveva incarnierate durante quella lunga carriera venatoria, iniziata a soli sei anni con una fucilata “strappata” alla bontà e alla pazienza del nonno.
Quante beccacce, quante coturnici aveva ucciso, ma le amava tutte, una per una; e una per una cominciò a rivederle, come in un sogno.
Mentre la vecchia fedelissima setter gli lambiva dolcemente le mani insanguinate, tutta la sua vita, come in un film, gli passò davanti agli occhi, e cominciò a parlare a sé stesso.
“Ricordi Gianni? Avevi sei anni quando tuo nonno ti concesse di tirare un colpo ad un coniglio al-la posta. Che capitombolo fece! E che gioia ti stringeva la gola mentre correvi giù per il calanco per recuperare la preda! Ricordi la lacrima di commozione del nonno? Era felice quel vecchio!
Avevi undici anni quando cominciasti a rubare il fucile a tuo padre e, spinto da quell’ancestrale passione, da quella febbrile e irrinunciabile esigenza, ti tuffasti in un mare di foglie morte, nella spasmodica ricerca della “fata”, lei, l’arcera, la regina, Lei! Quell’essere vellutato che con la sua morte ti fece sentire mille volte vivo.
Quella che tutte le volte accarezzasti, magari con una lacrimuccia, sperando nel miracolo che la facesse ancora volare, perché ti cullasse col suo lungo becco, come una cicogna che porta un bam-bino; perché ti portasse sulle sue ali falcate, su, su,oltre le grigie nuvole dell’inverno, là dov’è sempre primavera, là dove imperano sovrani i sogni che gli uomini fanno quando sono bambini, là dove c’è Dio a dare senso a tutte le cose.
…Ricordi Gianni, quanto amore, quanta tenerezza, quanto orgoglio c’era negli occhi di tuo padre mentre ti “accarezzava” la schiena con la cintura, per punirti di ……averlo fatto felice … ruban-dogli la vecchia doppietta del nonno, di aver contravvenuto ai suoi ordini nell’avventurarti da solo nel bosco, nell’avergli inconfutabilmente confermato che eri suo figlio, …perché quarant’anni pri-ma, la stessa doppietta, vecchia, logora ma gloriosa l’aveva rubata lui?
Gianni ebbe un brivido.
Gelide gocce di sudore gli solcavano la fronte e la schiena, ma era bello star lì a farsi scaldare le mani dalla vecchia inseparabile setter, a farsi scaldare il cuore dai ricordi di una gioventù passata tanto in fretta da essere stata vissuta quasi senza accorgersene.
Ne era passato di tempo da quel giorno.
Ottant’anni da poco suonati, ma non aveva saputo resistere: “ …per il primo dell’anno inviterò a cena Sua Maestà la Regina”, si era detto, e il giovane ottantenne, ancora una volta, aveva stretto fra le mani il vecchio 16; un cènno della mano alla cagna, ormai sorda per l’età, e via, verso l’eterna giovinezza della caccia.
Ora era lì, sconfitto dalla vecchiaia, inconsolabile perché i suoi riflessi, intorpiditi dagli anni, gli avevano impedito di poggiare il trofèo sul marmo della cucina e di dire ancora una volta con mal-celato orgoglio e finta noncuranza : “…c’è una cipolla in questa casa?”.
Suo figlio era andato a caccia con gli amici, e il nipotino, stranamente, quella mattina non lo aveva salutato col solito “…nonno, mi porti?…”; forse dormiva ancora.
“Angelo benedetto”, pensò Gianni, “ha solo otto anni, ma quando mi vede uscire con Laika e la vecchia doppietta, mi saluta dalla finestra con la manina e poi fa la lacrimuccia. Suo padre, quel brigante di mio figlio, dovrebbe portarselo appresso, ogni tanto; ma forse è meglio così; senza que-sta malattia addosso vivrà anche meglio, e non ruberà tempo alla famiglia e al lavoro come ho fat-to io…”.
Ma non ci credeva neanche un po’.
Un dolore sordo prese a stringergli il petto, mentre aumentava un senso di nausea comparsa già di mattina.
Cominciava a nevicare quando l’eco di una coppiòla rabbiosa, tipica dei principianti, giunse dal costone di fronte e andò a perdersi nella vallata.
Pochi istanti dopo, un grido.
“…Qualche stronzo ha buttato giù la mia beccaccia, sul crinale, e per recuperarla si è spaccato qualche osso cadendo dal costone… …devo aiutare quell’imbecille. Ho ottant’anni, ma sono sem-pre un medico, perDio! E poi, medico o no, sono un cacciatore, non uno di questi buoni a nulla nati nel terzo millennio, che partono con attrezzature costosissime me in montagna non sanno muovere un passo! Forza Gianni!
Le robuste gambe, tornite da mille cacciate a cotorni, in posti che non avrebbe frequentato neppure una capra, partirono come due locomotive a vapore.
In cinque minuti divorò la vecchia mulattiera e si trovò fra gli alastri del crinale.
“Papà!”
La voce di suo figlio lo fece sussultare.
“Papà, vecchia cornacchia! Ma oggi avete deciso tutti di farmi impazzire?”
“Giuro che appena torno a casa butto via tutti i fucili e regalo i cani!”
“Tu, vecchio pazzo, te ne vai da solo con la neve, e tuo nipote, quello che pare un angioletto, lo sai che ha fatto ? Mi ha fregato il 20 ed è scomparso! Meno male che sua madre mi ha trovato, perché in questa fottutissima montagna il mio telefono non piglia mai!
Ora tieni le chiavi della jeep , infilatici dentro e non muoverti finchè non l’avrò trovato. E speriamo che non si sia fatto male, altrimenti ce n’è anche per te! Tu e i tuoi maledetti racconti di caccia! Mi hai contagiato anche Giannetto!”.
Il vecchio si ruppe le palle e fece sentire il suo ruggito:
“Senti! pezzo di stronzo! Invece di perdere il fiato ad insultare tuo padre, sali in cima al crinale e vedi di fare presto. Ho mancato una beccaccia mezz’ora fa. Se conosco le beccacce, si è rimessa fra i castagni sopra il roveto grosso, e se conosco il mio sangue, mio nipote è là. Sbrigati, idiota, io vado da sotto. Se è scivolato giù, con la neve che è caduta stanotte, sarà caduto sul morbido, ma, quanto ad uscire dal roveto, ho i miei dubbî…!”.
Il vecchio prese a scendere verso il roveto grosso, mentre la sagoma di suo figlio scompariva fra i castagni innevati.
Laika aveva “avventato” ed era partita come un fulmine.
“…Vecchietta mia”, pensò Gianni, “…a quest’età, appena sente la beccaccia non la ferma nem-meno il demonio. Chiamarla è inutile; è più sorda di me. Verrò a cercarla poi…”.
Si precipitò per l’antica mulattiera, un bellissimo ciottolato romano, scivolando tre o quattro volte su un insieme di fango e neve.
Il dolore sul fondo schiena gli ricordò un ragazzo di 16 anni che, 64 anni prima, sulla stessa mulat-tiera, cadeva, puntualmente, ogni volta che correva giù per recuperare i cotorni che, come palle di stracci, piovevano giù dal crinale, sotto i colpi, ben assestati, del suo amatissimo Breda.
Allora la caccia era caccia pura.
Non c’erano tesserini da compilare; non c’erano giorni concessi e giorni proibiti; non c’erano li-miti di carniere, più tardi resisi necessarî per la mancanza di limiti nella bestialità degli uomini, che seminando veleni ovunque, decretarono la fine della fauna stanziale.
Il vecchio si ricordava di quelle mattinate gravide di coturnici, il cui canto magico gli metteva in circolo tanta adrenalina da poter riempirci le botti.
“Cosa potrà mai saperne mio nipote? Perché abbiamo permesso tutto questo? Perché nessuno ca-pisce che stiamo uccidendo la loro vita e l’ambiente che è stato la nostra culla? Perché tutto ciò deve finire?”.
Questi i pensieri del vecchio, mentre il dolore al petto si faceva sentire ancora e il sudore inzuppa-va ormai la cacciatora.
La voce di Laika arrivò squillante alle sue orecchie.
“Sua maestà è partita!”, pensò il vecchio, “…ancora una volta Laika le ha rotto il culo!”.
“Nonno!”
Il piccolo demonio uscì dai rovi col 20 a tracolla e una beccaccia ancora viva in mano.
L’altra manina, straziata dalle spine, scompariva ritmicamente, sotto la lingua della vecchia setter.
Dalla rocca, sul costone, giunse un grido : “Gianni !”
La voce del vecchio tremò di commozione, ma si fece sentire a distanza : “Tranquillo! E’ con me! E non ha niente! Anzi: ha una beccaccia che tu neanche te la sogni!”.
“Briganti tutti e due!!” fu la risposta, che piombò giù dalla rocca come un cotorno stecchito.
“Ora che mi farà papà?” …e cominciò il pianto.
“Penso che ti accarezzerà la schiena con la cintura. E tu non farlo mai più!”
“Naturalmente intendo: in futuro evita di cadere!”.
Il ceffone partì violentissimo e arrivò morbido come una piuma.
“Questo è tutto merito di tuo nonno! Quella vecchia cornacchia!
Ma… papà, che hai?”
Il vecchio guardò il figlio e il nipote, si portò la mano destra al petto e, madido di sudore gelido, disse: “E’ un infarto diaframmatico… è da stamani che ho la nausea, sudo per niente e ho un dolo-re qui da morire; ma l’ultima beccaccia la volevo proprio pigliare”.
Poi posò gli occhi sul bambino e su quella beccaccia, la più bella della sua vita : “…Lui comincia dove io finisco…”
“Tu non finisci un corno, brutto vecchio bacucco! Anch’io sono un medico, e, per di più, non sono stupido come te! Il sudore lo devi ai tuoi 80 anni; il dolore è l’effetto del gelo sulle coste che ti sei fracassato negli anni, ruzzolando appresso ai cotorni; col freddo che c’è stamattina, sfido io che ti duole il petto! E la nausea, vuoi che ti dica cos’è? Ieri sera ti sei sbranato non meno di un chilo di baccalà con patate e olive; ma che credi di essere, un caterpillar? Ringrazia Iddio che hai solo un po’ di nausea. …Finisco, finisco… Ma finisci di dire stronzate! Sei talmente attaccato alla vita che ogni acciacchetto ti pare la fine!
Avanti! Ora facciamoci un sorso del cerasuòlo che ho nella borraccia e torniamocene a casa.
Dobbiamo pur cucinarla, la prima regina di mio figlio!
Chissà, …
…Chissà se c’è una cipolla in quella casa?”.
Eugenio Bonomo